Discutere di politica con un politicante è come parlare di religione con un prete o di psichiatria con un matto. Non ci si comprende perché si usano linguaggi diversi e inconciliabili. E, al di la dei linguaggi, sono proprio gli scopi materialmente perseguiti dai professionisti della politica ad essere inconciliabili con i principi pubblicamente sbandierati.
Per chi vive di politica e nella politica, e ci sta dentro ottimamente bene, il partito è come una mamma che elargisce a piene mani incondizionata protezione. Una divinità tutelare che non nega mai una poppata dalle mammelle gonfie di soldi e non lesina ai protetti la sua manna di benefici, mazzette e fondi neri, che piovono dal cielo (talvolta all’insaputa del beneficiario!) come il cibo divino pioveva sulle teste dei biblici padri del deserto.
Perciò queste pagine sono rivolte ai normali cittadini, laici e profani, non addetti ai lavori e non contaminati dal germe della politica; uomini “qualunque” che da piccoli non hanno mai fatto il capoclasse e da adulti non hanno mai collezionato neanche un’offerta di candidatura al consiglio di paese o di circoscrizione. Segno che nessuno li ha mai considerati abbastanza disonesti e scellerati per poter accedere alla casta, sia pure a livello infimo.
Ma in questo caso l’esclusione non deve dispiacere. Non è vero, come può esser comodo far credere, che la politica sia un’arte o una scienza; non è arte perché non cerca e non trova il bello, e neanche il buono; non è scienza perché non aumenta le conoscenze, perseguendo invece utilità e interessi di parte. È una pratica trucida e immonda, molto vicina al borseggio e al furto con destrezza. Richiede certamente delle abilità (come rubare, profittare, mentire, ingannare, etc.), ma sono attitudini che la gente dabbene non coltiva e tralascia volentieri di affinare. Anche se, così agendo, i buoni cittadini si autoescludono dalla competizione e si lasciano governare dagli individui più infidi e ignobili: i “peggiori” della società, i politici appunto.
Le persone sane e specchiate non si esaltano a tagliare nastri e baciare bandiere, non godono a deporre corone sulle lapidi dei caduti, soprattutto non entrano in lizza con i politicanti. In tal modo si autoescludono dall’agone politico, ma, quand’anche non lo facessero, verrebbero comunque prontamente emarginate dai competitors più furbi e spregiudicati.
È per questo che “il partito degli onesti”, da molti vagheggiato, non ha la minima possibilità di affermarsi nella nostra “serva Italia”. Ostano le caratteristiche antropologiche di fondo che distinguono il politicante dalla persona onesta, in primis la capacità e la disponibilità a utilizzare strumenti demagogici atti ad attrarre il consenso degli elettori, soprattutto quello dei “moderati” e degli sprovveduti che tendono a votare in modo diametralmente contrario ai propri interessi di classe.
L’esito finale è comunque prevedibile e scontato: vince sempre il peggiore dei contendenti, quello che usa al meglio la menzogna e la demagogia. Tra tutte le forme di governo individuate dai filosofi, si può pragmaticamente operare una reductio ad unum: la cachistocrazia, il governo dei peggiori, o più semplicemente la cacocrazia, il cattivo governo, male endemico, e purtroppo non estirpabile, del nostro Paese.
Non ci sarà vero progresso fin quando non si porrà un argine civile alla prepotenza politica. Occorre che i buoni cittadini si impegnino in una strenua resistenza antipolitica. Forse non si otterrà il buongoverno da tutti desiderato, né il governo dei sapienti immaginato da Platone (contradictio in terminis perché il vero sapiente non aspira a governare), ma si potrà sperare in un governo del meno peggio, unica possibile, e piuttosto rara, alternativa al governo dei peggiori.
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