Un mondo parallelo, solo all’apparenza distopico, dove gli “scarti” – le persone giudicate non normali – sono confinati in un pianeta remoto, isolati dalla imperfetta perfezione dei “sani”; dove la realtà desolante potrebbe essere potenzialmente migliorata dal ricordo dei sogni, alcuni dei quali raccolti in una biblioteca apposita; dove il confine tra il bene e il male si confonde tra diffusioni di virus tecno-biologici e stragi compiute con le migliori intenzioni. Questo è l’universo sinistro, con dei tratti, però, bonari, creato, sia con ruvidezza che con partecipazione, dalla vivida fantasia di Alberico Mattiacci. Una fantasia visionaria che aggredisce pacificamente ogni forma di indifferenza, ogni momento di colpevole distrazione. Una fantasia a tratti apocalittica che costruisce con perizia un riflesso cristallino dell’attualità e lo proietta su uno specchio deformante il quale, paradossalmente, rende più nitidi i contorni delle cose di solito abbagliati da un’illusoria visione solare. E in un gioco vorticoso di simmetrie e di opposizioni, di collegamenti e di dissociazioni, spicca la dolente sensibilità dell’autore che non giudica ma osserva, che sa bene come sia reperibile proprio nella diversità non stigmatizzata l’abbrivio per la realizzazione di una nuova dimensione civile, di una reale coesistenza pacifica. Nell’amara certezza, tuttavia, che lo stigma verso i disabili psichici non sia solo nella ghettizzazione, ma anche nella compassione.
"Ma perché dovremmo essere compassionevoli verso queste creature, mi domandavo? Vogliono sentirsi normali o meglio pretendono rispetto per la loro diversità? Allora siamo uguali, posso trattarli anche male se ce n’è bisogno. Il problema non è il loro ma sta in noi che continuiamo a trattarli con i guanti bianchi, con troppo rispetto e al tempo stesso se possiamo tenerli lontani da noi ne siamo felici. Una misericordia a buon mercato parecchio falsa e ipocrita a dire il vero. Io voglio fare a botte con un disabile e poi piangere e ridere con lui e poi abbracciarlo. Voglio offenderlo, insultarlo senza commuovermi per la sua debolezza, per la sua fragilità."
Paolo Marati |